- RACCONTI -
La magia era molto diffusa nel paese, con alcune varianti. Mi hanno raccontato di come la Nicola “Capannella“ toglieva il mal di pancia segnando il corpo con una croce. Invece Bragioni Angelino detto Pacchetta e Gioacchino Sforza della “Bucona” avevano lo stesso metodo, per la distorsione degli arti, con la variante che invece della croce usavano una pietra miracolosa. La Cosimina toglieva il malocchio gettando dei chicchi di grano in un bicchiere di acqua, se uscivano delle bolle erano la conferma di essere sotto l’influsso del maleficio e bisognava procedere con il rito.
Molte sono queste storie e adesso ve ne racconto una. Una donna del paese aveva conosciuto la Marroca molti anni prima che accadessero questi fatti, quando ancora era soltanto una insospettabile bellissima signora bionda venuta dal nord per fare la levatrice. . Alla fine della storia le chiedevo ”nonna, ma è una storia vera?” e lei mi diceva: “tu ci credi?” Visto che io esitavo nel rispondere, ribadiva: “ Se ci credi è vera, se non ci credi non lo è”.
LA MARROCA
Tutte le sere i monelli del paese erano soliti scagliare sassi di una certa consistenza alla porta della Marroca. L’anziana signora dai capelli bianchi e gli occhi azzurri come il mare, non si scompose più di tanto. Ormai era abituata al trattamento. Aprì la porta, guardò con ciglio aggrottato, imprecò parole incomprensibili, sputò sul palmo della mano mancina, la poggiò sull’anta della porta e maledisse chi avesse scagliato la successiva pietra con un: “Te piasse no strabocco”. (di sangue n.d.a.) Rientrò in casa e non dovette attendere molto che un nuovo colpo forte e sordo rintronò nella stanza. Seguì un attimo di silenzio, rotto d’un tratto da grida e pianto. Un leggero rivo di sangue colava sul mento del fanciullo che aveva scagliato la pietra. Poi tossì, sputo sangue e saliva, e il terrore assalì l’intera compagine, “ la Marroca, è stata la Marroca l’ho intesa proprio io”.
Il giorno seguente due colpi decisi, ma non forti come i sassi dei monelli, picchiarono il battente della porta. “Monellacci “ si udì gridare dall’interno. Aprì d’un colpo la porta come nell’atto di cogliere in flagrante il colpevole, stava per formulare orribili parole ma si trattenne alla vista dei due gendarmi. “ Ah siete voi” disse la vecchia “Ci sono dei ragazzi che tirano sassi alla mia porta, era ora che arrivaste”. I carabinieri chiesero spiegazioni sulla vicenda accaduta il giorno avanti, costatarono che non vi fu colpa da parte della Marroca, anzi se qualcuno doveva subire delle conseguenze erano proprio quei ragazzi. Del resto quale giudice l’avrebbe condannata per malocchio?
Il battente della porta si alzò e si abbassò celermente due volte “Chi è?” rispose una voce spazientita.“Marigrazia, so la Crestena, v’ho da parlà subboto”. La porta si aprì e una vecchia dai capelli grigi e neri spettinati, si presentò all’uscio. La donna che stringeva al seno il fanciullo maledetto entrò senza aspettare il permesso, con parole confuse e gravi descrisse l’accaduto alla vecchia che fece segno che già sapeva tutto. Le notizie cattive corrono sempre più veloci che quelle buone. Strinse tra le mani il viso del bambino e sollevò il mento per scrutarne gli occhi e in un istante bruciò la sua anima e la colpa. Dalla credenza estrasse un piatto vecchio almeno quanto lei, lo colmò di acqua intinse il dito nell’olio e ne versò alcune gocce. Se l’olio si fosse allargato a modo di macchia non c’era nessun motivo da temere, ma così non avvenne, le gocce rimanevano lì immobili senza scomporsi formando dei pancelli, come segno di un malaugurato destino. “ E’ occhiaticcio e bello grosso” sentenziò la vecchia. Per ben tre volte propose il rito, prese l’immagine di Gesù crocefisso segnò la fronte del bambino con l’olio benedetto, farfugliò strane parole (1) e invocò l’aiuto dei santi protettori. Il pallore sul viso del fanciullo sembrava aumentare pian piano che la vecchia scuoteva la testa come segno della sua impotenza. Nessuno lo avrebbe potuto salvare se non la Marroca stessa. “ E’ più forte di me “ disse la bisnonna Maria Grazia “solo la Marroca po’ savvà e figghio”.
I giorni successivi consultò alcuni dottori, si rivolse al prete per una benedizione, pregò e supplicò Dio e tutti i Santi di sua conoscenza, ma nessuno fu in grado di guarirlo. Il rivo di sangue continuava a scendere dalla bocca, il suo stato peggiorava con febbri, dolori di stomaco, conati di vomito e nausea. Non c’era verso di uscirne.
Una domenica mattina prima che il sole si affacciasse alla finestra della terra una timida mano bussò pianissimo alla porta della Marroca. Aveva atteso pochi attimi come se preferisse che nessuno avesse udito battere e incipiva ad andarsene quando una voce flebile ma decisa chiamò: ”Chi è?” “So la Crestena ve dovarebbe parlà un minuto”. Dopo pochi attimi la porta si aprì e uno spettacolo strabiliante si mostrò agli occhi della donna. La Marroca ben vestita, con i capelli raccolti dietro la nuca, un volto ben curato e quasi giovanile. Unico disappunto lo sguardo assonnato che mostravano il segno di una notte di veglia. Per un attimo rimase in imbarazzo sullo stipite della porta, poi rammentando il motivo della sua missione, prese il coraggio a due mani ed entrò. Dalla finestra socchiusa penetrava la flebile luce del sole nascente, e un avanzo di candela acceso a stento illuminava gli oggetti della stanza.
Il bambino preso da grande spavento si rifugiò nelle braccia della madre, le sue guance ripresero quel naturale colorito che la malattia gli aveva negato. La Marroca capì subito, cosa voleva la donna e prima che lei parlasse si rivolse al fanciullo: ” Sei venuto a chiedermi qualcosa ?”. Con il capo chino e la voce rotta dall’emozione rispose: ” Sono venuto per chiedere perdono”. “Non a me ma alla natura lo dovrai domandare per tutto il male che hai procurato”. “Quale male?” replicò la madre “E’ solo un bambino che cosa ha fatto di grave?”.
“All’erba che hai calpestato,
ai fiori che hai reciso,
alle farfalle che hai catturato,
alle lucertole che hai ucciso.
Ai nidi degli uccelli che hai saccheggiato,
agli alberi per i frutti che hai mangiato,
al grano che ti ha sfamato,
al latte che ti ha nutrito”.
La osservava perplesso mentre pronunciava queste parole, i loro sguardi si incrociarono e la colpa per i sassi scagliati gli sembrò minore. Mentre il sole cresceva sulla linea dell’orizzonte il volto della Marroca ritornava quello di una vecchia. Si ritirò dietro una tenda e si cambiò l’abito sciolse i capelli bianchi e riprese l’aspetto della strega che aveva sempre conosciuto.
Tolse dalla madia un vaso di ceramica dipinto con figure mostruose, ne prese un pizzico di erbe disseccate e le immerse in una tazza di acqua tiepida che dopo pochi minuti fece bere al bambino e in un istante la febbre l’abbandonò. “Quando il cerchio della luna sarà completo ti recherai a Norsano sotto l’albero di quercia che si trova vicino all’incrocio delle quattro strade. Traccerai un cerchio sulla terra e ti sdraierai all’interno con il viso rivolto in giù. Prima dell’alba non uscire per nessun motivo dal cerchio e non temere per ciò che vedrai o che udirai”. “Ma io ho paura” disse il bambino “Con te ci sarà tua madre ma non potrà parlare, recita la formula che ti dirò: intra circula nemo lamia…”. Bisbigliò il resto della formula all’orecchio del bambino, se la fece ripetere sottovoce più volte per confermare che l’avesse compresa, ordinò di ripeterla spesso nei giorni seguenti per non dimenticarla, e non avrebbe dovuto ne scriverla ne riferire a nessuno perché non sarebbe stata più efficace.
La Marroca spiegò al bambino che la sua vita sarebbe dipesa da quell’appuntamento e che per nessun motivo avrebbe dovuto disertare. Se avesse recitato bene la formula magica, le streghe avrebbero obbedito ai suoi ordini, e sarebbe guarito dalla malattia.
Passarono nell’ansia e nel dubbio i giorni che lo separavano dall’impegno, nel mentre la madre si ammalò a causa di un parto cesareo. La setticemia era in agguato, la febbre ogni giorno si faceva più alta e l’infezione incontrollabile. La sera della luna piena era ormai giunta, si recò al capezzale dalla madre e pianse come solo i bambini sanno fare. Lei lo baciò teneramente, osservò il pallore del suo volto e lo supplicò di non evadere l’appuntamento.
Poco prima di mezzanotte il padre lo accompagnò fino alla grande quercia, lo rassicurò che l’avrebbe atteso all’incrocio delle quattro strade (2), come aveva suggerito la Marroca, gli lasciò il suo coltello col manico d’osso, e prese congedo. La luna rischiarava il buio della campagna, aveva completato il cerchio intorno a se e si era sdraiato per terra. All’improvviso la luna e le stelle cominciarono a danzare nel cielo, e da ogni direzione delle strade accorrevano donne e animali. Lo spavento fu immenso, preso dal terrore stava per scappare e correre dal padre, ma la Marroca che gli sembrava di scorgere tra la strana compagnia si tocco la tempia come a segno di ricordare. Si sdraiò di nuovo sulla terra e tra lacrime e singhiozzi pronuncio le magiche parole:” Intra circula nemo lamia….” Al suono di queste parole le streghe come per incanto si fermarono davanti al bambino senza potere entrare nel cerchio. Come aveva detto la Marroca chiese perdono per il male che aveva procurato, promise che non avrebbe mai più distrutto la natura se non per necessità e invocò il loro aiuto per la malattia che lo perseguitava. “ Per me e per mia madre” disse il bambino, “Dateci quello che ci è stato tolto”. Non avrebbero potuto neanche loro far vivere entrambi, uno soltanto, l’altro avrebbe oltrepassato la soglia della vita. Scendevano copiose le lacrime sulle guance, bagnavano le estremità delle labbra e cadendo sulla terra si trasformavano in gocce di rugiada. Anche le streghe si turbarono a siffatto strazio ma la sorte ineffabile e sconosciuta agli occhi dell’uomo è strana volontà di Dio a cui neanche loro potevano sottrarsi. Con un bisbiglio impercettibile il bambino mormorò un nome, che nessuno udì, si avvicinarono fino all’estremità del cerchio e se lo fecero ripetere ancora per non sbagliare. Allora le streghe invocarono il Capro che abita nel profondo della terra e da questa ne uscì. L’orrendo essere con il busto da uomo e il corpo da capra chiese un debito di sangue e di anima per il dono della vita. Due libbre di sangue furono versate dalla Marroca incidendosi la vena del polso, quanto all’anima s’impegnò che avrebbe posseduto quella della madre. Tra danze e orge proseguì la notte delle streghe fino a quando la luce dell’alba solcò il cielo stellato di giallo e cremisi. Uscì dal cerchio s’incamminò verso il luogo dove l’aspettava il padre, lo vide venirgli incontro e correndo si tuffò tra le sue braccia.
Il 27 di novembre sotto la pioggia battente una piccola bara bianca usciva dalla chiesa parrocchiale. L’acqua stemperava il sale delle lacrime, ma solo il tempo avrebbe potuto diluire il dolore. Il sogno di un bambino si era infranto contro l’anta di una porta.
Alcuni giorni dopo, affranta nello spirito e nel corpo la mano della donna bussò convinta alla porta della Marroca. “Chi è ?” disse la strega, “so la Crestena, v’ho portato due uova”. La porta cigolò ruotando sul suo cardine e il viso triste e candido della vecchia l’invitò ad entrare. Si mise seduta vicino al camino dove un ceppo annerito emanava più fumo che calore. Tacquero entrambi per alcuni minuti poi la Marroca lodò il coraggio del bambino che aveva scelto la vita della madre.
Con gli occhi arrossati dal fumo e dal pianto, la rabbia nel cuore e l’ansia del domani recitò insieme alla Marroca il Padrenostro alla rovescia (3), sputò sul simbolo più importante del cristianesimo e invocò il signore della terra perché potesse fargli rivedere suo figlio.
Ma cosi non fu. Il giorno successivo si confessò più volte per il gesto compiuto, invitò il prete a benedire la casa, pose un’immagine della Madonna delle Grazie dietro la porta e mai più si avvicinò alla casa della Marroca fino al giorno in cui anche lei rese l’anima a Dio anzi al demonio e per pietà cristiana ne compose il cadavere.
1)Non si può rivelare a nessuno la formula che serve a scacciare il malocchio, perchè si dice solo sotto solenne promessa affinche il segreto lo si possa confidare solo a chi volesse proseguire l’antica tradizione.
2) Si credeva che mettendosi all’incrocio di quattro strade con la testa infilata tra i due aculei di una forca si sarebbero potute vedere le streghe ma non parlare con loro.
3) Ogni volta che ho chiesto spiegazioni specifiche sul Padrenostro alla rovescia ho sempre avuto risposte latitanti. La maggior parte delle persone diceva di non ricordare, altri invece si sono rifiutati di fare anche il minimo accenno. Mia madre che lo aveva sentito recitare molti anni fa da un da un vecchio miscredente e bestemmiatore finge di non ricordarsi neanche una parola, poiché la ritiene l’offesa più grave che si possa fare a Dio.
LE ERBE MAGICHE
Fin dai tempi più remoti l’uomo primitivo si è servito delle piante e dei sui frutti per soddisfare il proprio bisogno alimentare. Susseguentemente ha compreso che sono presenti al loro interno delle energie che si possono opportunatamente e sapientemente sfruttare. E’ il caso dell’erboristeria e delle medicine estratte dalle piante. Non solo, gli ha conferito un potere spirituale ben di là dalle sue intrinseche proprietà. Come ad esempio il rosmarino usato in cucina come aromatizzante, un tempo come incenso veniva bruciato nei templi, come simbolo di ricordo e di immortalità. Una credenza siciliana considera il rosmarino come pianta cara alle fate, che si nascondono tra le sue foglie.Il grano, che da molti secoli è alla base dell’alimentazione umana, appeso in mazzetti all’interno della casa ha funzione di protezione dagli spiriti maligni e dalle streghe.Lo spirito presente all’interno delle piante è stato identificato con il nome di Grande Madre per le misteriose capacità riproduttive. Nel corso dei secoli lo spirito della natura(Grande Madre) con tutte le divinità a lei collegate (Demetra, Persefone, ecc) è trasferito per analogia nella donna, perché simbolo fondamentale della femminilità. E se lo spirito buono abita nella donna-madre ( nel mito cristiano la Madonna è la personificazione celeste della Grande Madre) il suo opposto risiede nella strega, legata al mondo terreno e agli inferi, serva del diavolo e delle forze del male. La strega è il punto di congiungimento tra l’uomo e la natura nella sua essenza più materiale e malvagia. E’ lei a traghettare l’uomo sulla soglia dell’inferno, e lo mette in contatto direttamente con il demonio, padrona incontrastata della natura più selvaggia e dello spirito che in essa risiede.E’ lei che causa le tempeste, devasta i raccolti con grandine o siccità, provoca aborti e uccide i bambini, procura la mala sorte e le malattie. Gli strumenti a sua disposizione sono i riti e le erbe magiche. Analogamente per combattere la strega e i suoi malefici si usano le piante e i riti scaramantici. Le stesse piante usate dalle streghe per i loro incantesimi sono allo stesso modo efficaci contro loro stesse.
Il nocciolo è stato considerato fin dall’antichità l’albero in grado di tenere lontano gli spiriti maligni e per condisposizione le streghe. Con i rami di questa pianta si potevano ottenere delle verghe magiche, e vi si ricavano anche le bacchette che i rabdomanti usavano per cercare l’acqua.
Nella tradizione Onanese, come gia citato nel N° 1 di Archeologia, Uomo e Territorio, del 1993 a cura del Gruppo Archeologico Aulanum, le fronde di questa pianta venivano benedette e portate in solenne processione ai quattro angoli del paese. Terminata la processione si intagliava il legno in modo da ricavarne delle piccole croci, che insieme con un ramoscello di olivo benedetto nella domenica delle Palme e una candelina venivano poste nei campi a protezione delle messi.
La cerimonia si svolgeva il tre di maggio nella festività di Santa Croce. La solennità di tale manifestazione è documentata oralmente dagli anziani del paese, che riferiscono come tutti i contadini si sarebbero recati in ogni loro appezzamento di terra e vi avrebbero piantato una croce. La tradizione vuole che durante la mietitura, all’atto di togliere la croce vi si potevano trovare dei piccoli fori, si affermava che vi era passato San Martino e il raccolto sarebbe stato abbondante.
Risulta evidente come culto cristiano abbia sposato il rito pagano e la bacchetta magica ottenuta dai suoi rami si è trasformata nella croce miracolosa in grado di proteggere le messi. La forza protettrice del nocciolo e per emulazione della croce avrebbero tenuto lontano gli spiriti maligni e le streghe con i loro malefici.
Fin dai tempi più remoti la notte di San Giovanni è considerata la notte “magica” in cui gli spiriti della natura sono i padroni assoluti dei campi e delle messi. Lo spirito della natura, meglio conosciuta con il nome di Grande Madre, assume nel medio evo il carattere di strega, e viene trasferito nell’animo femminile per le stesse capacità riproduttive della natura. Così durante la notte di San Giovanni si possono vedere volare le streghe o le adunanze sabbatiche.
Sempre nella tradizione Onanese e in molti altri paesi la vigilia di San Giovanni si raccolgono i fiori dell’omonimo Santo insieme ad altre erbe profumate (salvia, menta, matricaria, foglie di noce, petali di rosa) messe a bagnomaria per tutta la notte in modo che fossero benedette al passaggio del Santo, il giorno successivo l’acqua profumata veniva utilizzata per lavarsi. Invece le erbe tolte dal bagnomaria venivano fatte essiccare e bruciate in casa il giorno di S. Anna perché si riteneva che il fumo potesse scacciare gli insetti. Da un indagine più approfondita risulta evidente come il rito di bruciare le erbe benedette all’interno della casa non serviva solo a scacciare gli insetti ma soprattutto gli spiriti maligni. Difatti in molti parti d’Europa la festa di San Giovanni è legata al solistizio d’estate e all’accensione dei falò che avevano la funzione di difendere dagli spiriti maligni e in particolare dalle streghe in quanto si diceva non tollerassero il fumo. Inoltre bisogna ricordare che la superstizione popolare vuole che gli spiriti e le streghe si trasformino in insetti per penetrare all’interno delle abitazioni. Quindi è pacifico affermare che l’espressione scacciare gli insetti è la forma poco velata di scacciare le streghe.
Quanto alle erbe magiche usate per il Bagno ricordiamo che l’erba di San Giovanni (hypericum perforatum) è considerata fin dall’antichità una delle piante più efficaci per l’allontanamento delle streghe e per la guarigione. Si tratta di una piccola pianta provvista di modesti fiorellini gialli e foglie semplici opposte, punteggiate da macchie traslucide (da cui il nome perforatum) molto comune dalle nostre parti, usata in erboristeria come rimedio per deboli stati depressivi e per l’insonnia. Il termine iperico deriva da iper (sopra) e eicon (immagine) intesa nel senso di spettro-fantasma, da qui ne deriva il carattere magico della pianta “qui sit super spectra”. Considerata fin dall’antichità come l’erba scaccia-diavoli viene chiamata erba di San Giovanni a causa di un piccolo pigmento di colore rosso presente sulle foglie che ricorda il sangue del Santo fatto decapitare da Erode a causa di Salomè.
Tra le altre erbe citate nel Bagno di San Giovanni ricordiamo la salvia(salvia officinalis) la cui etimologia risale dal latino salvere ovvero godere di buona salute. Usata in erboristeria soprattutto nelle patologie dell’apparato respiratorio è antisettica e antibatterica. Ma la salvia è anche l’erba che usano le streghe per avvelenare. Foglie di salvia messe a putrefare e gettate in un pozzo o in una sorgente avvelenano l’acqua, e questo può avvenire per causa di una strega anche senza il consenso del demonio.
Allo stesso modo le foglie di noce sono le stesse usate dalle streghe per i vari sortilegi. Le foglie di noce rientrano tra quelle piante raccolte per adornare l’infiorata del Corpus Domini e quindi acquistano carattere magico perché benedette dalla sacra processione. Non dimentichiamo che le adunanze sabbatiche si svolgevano soventemente al riparo di una pianta di noce. La più famosa è quella di Benevento fatta abbattere dal vescovo della città durante l’assedio dell’imperatore romano Costante II. Sotto il suo tenebroso albero si riunivano le peggiori razze di streghe: le janare. Mi riferiscono le persone anziane che sostare d’estate al riparo di una noce fa male perché l’ombra è cattiva. Più che di ombra oserei affermare che si tratta di pianta cattiva in quanto nell’immaginario collettivo ricorda le adunanze sabbatiche che vi si svolgevano fino a qualche secolo fa.
La matricaria (matricaria recutita) appartiene alla stessa famiglia della camomilla. Il nome deriverebbe dal latino matrix-matricis, cioè utero poiché si attribuivano proprietà magiche in quanto poteva regolare il mestruo, impedire gli aborti e neutralizzare gli effetti dei veleni.
Tra le altre piante da ricordare per il loro legame con la stregoneria è da segnalare lo stramonio.
Lo stramonio (datura stramonium) era già noto anticamente ai greci e agli arabi. L’estratto veniva utilizzato per vaticinare il futuro nei riti sacri e magici in virtù delle allucinazioni che produceva. Ogni buona strega che dir si voglia conosceva bene l’uso dello stramonio. In piccole dosi è allucinogeno, conduce in profondo stato di trance seguito da convulsioni e sonno profondo, ad alto dosaggio è mortale. Bastano appena centoventi semi per indurre la morte, e non sono molti se si considera che una sola bacca ne può contenere più di cinquecento. Un tempo le sue foglie venivano fumate per calmare le crisi di asma.
Altra pianta da ricordare è la belladonna(atropa belladonna). Come lo stramonio è una pianta molto tossica con uno sgradevole odore, cresce spontanea nei boschi anche se è molto difficile da reperire. La josciamina, è l’alcaloide principale dei suoi componenti, un potente allucinogeno in grado di proferire alla strega la funzione vaticinante (nel vernacolo onanese: strolica , ovvero astrologa, colei che è in grado di prevedere il futuro).
Queste piante sopra citate sono tra le più comuni usate nelle pratiche magiche, ma presso ogni singola comunità esistono una serie di erbe legate al territorio e alla tradizione che hanno la doppia valenza di nutrimento e magia.
LA DONNA IRLANDESE A ONANO
Tutto ha inizio verso la metà del 1700 quando un giovane irlandese domiciliato a Londra di nome Denham per evitare di essere mandato in prigione per debiti …
“….accettò di arruolarsi nel reggimento di Lord Blaney e si imbarcò per Lisbona nell'anno 1762. Lasciò indietro la sua sposa, Sukey, domestica nello staff della Duchessa di Beaufort a Badminton Court vicino a Bristol. Già nel luglio 1763, Ensign Denham aveva lasciato la vita militare per un impiego nella ditta di Thomas Earle-importatrice di vino, caffè, cuoio e marmo bianco che dal porto di Genova venivano inviati ai porti inglesi di Liverpool e Londra.
Lettere personali a Sukey e ai datori di lavoro, narrano come Denham studiasse la lingua italiana, traducendo pezzi delle poesie di Tasso, e delle sue difficoltà nel capire l'accento genovese. Fra le sue descrizioni della vita italiana ci sono un ballo in maschera a Palazzo Doria in onore del Duca di York e la menzione del rilascio di schiavi inglesi da parte del capo dei pirati: il Duca di Algiers.
A Genova Denham commissionò il suo ritratto al pittore Dance e lo spedì alla moglie. Questa riceveva la metà della sua paga così Denham doveva negarsi il lusso di un palco all'opera e al teatro fino al 1764 quando, diventando agente a Livorno, poteva contare sul reddito annuale di 40 sterline e due servitori. Dal suo nuovo posto scriveva del terremoto del gennaio 1767 e l'usanza locale di fare il bagno contro il caldo soffocante in vasche di rame che si potevano avere in affitto.
Finalmente nel 1768 il lungo e sospirato posto di "partner" nella ditta Earle gli assicurò i ¾ dei profitti sui carichi spediti da Civitavecchia.
Denham, arrivato a Civitavecchia per prendere il nuovo posto, vide il porto più importante degli Stati della Chiesa con numerose navi inglesi ma senza la presenza di un vero console inglese. Fiutando l'affare chiedeva, attraverso la moglie, una raccomandazione dal Lord Beaufort per avere il riconoscimento ufficiale di console britannico.
Nel 1769 la nave di Denham, "Victory", con a bordo un carico di tele d'Olanda destinate al governo papale, fu distrutta andando a cozzare sul basso fondale mentre cercava di attraccare nel porto di Civitavecchia. Dopo tre anni di battaglie legali con lo Stato Papale Denham ricevette come compenso, per le perdite subite, l'enfiteusi perpetua per se e per i suoi eredi maschi legittimi sulle terre di Onano, Proceno e Centeno nella parte più settentrionale degli Stati Papali.
Le colline ondulate sul confine fra la Toscana e gli Stati Papali erano in quel periodo considerate il paniere d'Italia. Producevano grano e altri prodotti alimentari che poi venivano spediti da Civitavecchia a Roma, in Ligura, in Francia e in Inghilterra. La famiglia di Joseph/Giuseppe Denham aveva ricevuto tutti i diritti sulle colture di grano e le tasse doganali della posta e dogana di Centeno in cambio di un versamento annuale di 500 scudi alla Camera Apostolica.
Il governo di Papa Clemente XIV si aspettava che l'enfiteuta incoraggiasse il commercio e applicasse metodi moderni per l'agricoltura. Le lettere di Denham agli amici in Inghilterra, durante questo periodo, contenevano commenti sul come era ben voluto dai suoi contadini e di com' erano contenti del suo stile di governo. Dalle sue lettere sembra che fosse considerato un membro di fiducia dell'amministrazione degli Stati Papali e partecipava spesso alle cerimonie a Roma. Fra i benefici che la famiglia portò alla terra di Onano ricordiamo l'introduzione dei telai per fare stoffe, una scuola per fanciulle e il miglioramento delle strade locali.
Oltre alle lettere, documenti notarili e di archivio sono rimasti di quel tempo, un ciclo di pitture a tempera nei saloni principali del castello di Onano dove oggi il Sindaco ha il suo ufficio. Lì abitò e governò la famiglia Denham per quasi un secolo. Nelle vivaci scene, vediamo la vita nei villaggi dai tetti molto inclinati che sembrano case irlandesi o inglesi; barche piene di persone, navi e porti con mulini a vento e scaricatori con carelli. Nelle pitture vediamo narrato i capitoli della saga di questa famiglia irlandese.
In questi anni Denham non contento dei proventi dall'enfiteusi e la spedizione d'opere d'arte, comprò altre terre e casali cadendo di nuovo in debiti, che furono più tardi pagati dalle figlie. Nell'anno 1801 Denham e i suoi figli maschi erano tutti deceduti e le terre di Centeno, Onano e Proceno dovevano essere, secondo il contratto fatto nel 1773, restituiti alla Camera Apostolica.
La figlia Carlotta sposata con un medico pisano di origine francese, Antonio Bousquet, ottenne il rinnovo della concessione di enfiteusi per se e suoi eredi maschi legittimi. Conosciuta come Madama Carlotta, aveva i cappelli rossi come una vera irlandese ed era molto benvoluta dalla popolazione locale. Ancora oggi il castello Monaldesco di Onano, che ha visto passare gli Sforza, i Monaldeschi, i Denham ed i Pacelli, ed è ora sede del Comune, è conosciuto come Palazzo Madama.”.
Tutto questo lo si è potuto apprendere grazie alle lettere conservate a Liverpool in Inghilterra e negli archivi di Roma e di Viterbo. Quindi nelle vene di ogni onanese è probabile che scorra anche del buon sangue irlandese!